Valerio Lundini
Il comico che ha decostruito un certo modo, anacronistico, di fare televisione.
Ciao!! Di solito spedisco la mattina, ma questo numero mi ha richiesto un po’ più di lavoro. Buona lettura!!
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È davvero complesso immaginare un mondo senza televisione, anche se la sua morte è stata annunciata in varie occasioni. Sembra controintuitivo, ma proprio nel periodo storico in cui abbiamo una libertà pressoché illimitata di fruizione dei contenuti audiovisivi, il ruolo di guida che può essere fornito dai palinsesti ritorna ad essere affascinante.
La formula utilizzata per costruire i contenuti televisivi d’intrattenimento nel nostro paese non è stata rinnovata per troppo tempo. Sedersi di fronte allo schermo in salotto, oggi, significa vedere una serie di programmi pensati per un pubblico con poche pretese, creati sulla base di meccanismi già visti. Le interviste family-friendly di Domenica In, quelle politico-culturali di Fabio Fazio, i momenti strappalacrime con l’ospite famoso che parla a cuore aperto nel salotto di Barbara d’Urso; format simili, con pregi e difetti ben definiti, possono ambire a intrattenere ancora un po’ il pubblico adulto, ma non hanno tante possibilità di presa su chi è cresciuto con internet.
Valerio Lundini è intervenuto in questo scenario di stagnazione con la forza trasformativa della parodia. L’ha fatto dapprima con le apparizioni all’Altro Festival del 2020, dove ha partorito una serie di perle come questa intervista a Rita Pavone e questo iconico dialogo con Bugo; poi con il programma che porta il suo cognome, Una pezza di Lundini, in onda con la terza stagione in queste settimane.
Alla Pezza, Lundini interpreta sé stesso nei panni di un presentatore scalcagnato, sicuro dei propri mezzi ma incapace di gestire una trasmissione tempestata da imprevisti. Durante le interviste o nei momenti in cui parla direttamente al pubblico si espone senza timore su qualunque tema spinoso per lo spirito dei tempi d’oggi, dalle discriminazioni razziali a quelle di genere, passando per quelle nei confronti delle persone con disabilità, proseguendo su temi delicati come depressione, guerra, criminalità organizzata - in un certo senso, pur con un approccio diverso, nuota nello stesso mare del miglior Checco Zalone, capace in alcuni film di puntare l’attenzione su temi sociali scottanti per ridicolizzare il modo in cui l’italiano medio li approccia.
Lundini si relaziona con questi temi impersonando lo stereotipo del presentatore neutrale, incapace di prendere una posizione netta che non vada oltre la banalità di un “tra me e questi ragazzi non c’è alcuna differenza” detto di fianco a tre persone nere - con questa scena inizia la prima puntata della stagione in corso. È un tipo umano, il suo personaggio, che si schiera solo quando questa scelta comporta un’azione semplice e formale, che non ha alcuna influenza sui suoi atteggiamenti - tanto che poi si prodiga in commenti sessisti, tocca il tema dell’omosessualità senza tatto, parla di “napoletanità buona”.
Siamo di fronte ad una esasperazione dei tratti del presentatore televisivo d’altri tempi, bonaccione e narciso, a suo agio nello studio e amico del pubblico; una personalità del piccolo schermo che si sente inespugnabile e in controllo, come se potesse esprimersi libero dai giudizi “dal basso” che sempre più colpiscono chi non dimostra rispetto per comunità e sottoculture che si sono guadagnate uno spazio con battaglie complicate.
Da spettatori, quindi, assistiamo al naufragio di questa figura di conduttore; gli standard contemporanei impongono a chi si espone in televisione - e non solo - di essere all’altezza della sensibilità comune, da cui il personaggio di Lundini è totalmente estraniato.
Una satira che funziona perché mostra un tratto essenziale della nostra contemporaneità: un certo modo di comunicare - di utilizzare i media, di fare spettacolo - sta perdendo mordente, in un crepuscolare processo di spegnimento caratterizzato da momenti trash e contenuti irrilevanti. L’artificiosità dei siparietti, il sentimentalismo forzato e la pornografia del dolore, l’ingenua impreparazione sugli ospiti a cui fare domande e la simultanea piaggeria estrema nei loro confronti; i palinsesti sono ancora oggi imbottiti di questo linguaggio, a cui in molti si sono comprensibilmente disaffezionati.
Questo “molti” coincide in buona parte con il pubblico che fruisce di contenuti su internet, abituato quindi ad un intrattenimento dotato di una grammatica estremamente diversa da quella descritta poc’anzi. “L’imprevisto e la sbavatura sono sostanzialmente i nemici della tv generalista vecchio stampo, al contrario diventano l’ingrediente portante delle piattaforme per le nuove generazioni” sottolinea questo articolo di Artribune. Centra il punto: Lundini ha portato su Rai 2 un umorismo assurdo che funziona online, un’ironia che mette a disagio lo spettatore e lo spiazza con il non-sense. E il cringe deriva proprio dall’essenza anacronistica di ciò che viene inscenato. Mi spiego meglio: quel tipo di presentatore, depurato dagli eccessi comici, è esistito veramente, esiste ancora, ha esercitato un imponente influenza culturale. Ma incarna una personalità lontana da un modo dignitoso di vivere nel presente.
Ciò che rende Lundini un personaggio rilevante dei nostri tempi è questa abilità nel decostruire il codice televisivo, restituendolo allo spettatore dopo averlo fatto a pezzi e annunciando in un certo senso che un determinato modo di raccontare la realtà in televisione - preconfezionato, superficiale, semplicistico - ha le ore contate.
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