Per una volta che ho visto la serie di cui tutti parlano: cosa dice il successo di Squid Game del mondo in cui viviamo??
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Squid Game è un’opera derivativa. Già nel primo episodio si percepiscono echi di Hunger Games e Black Mirror, così vividi da sembrare vere e proprie citazioni. Ciò non gli ha impedito di diventare la serie più vista di sempre su Netflix, secondo i criteri che la piattaforma utilizza per ricavare questi dati. Per capirci: se hai visto almeno due minuti di un episodio della serie nei primi 28 giorni dalla sua uscita, le hai donato una visualizzazione. Non proprio gli standard più rigidi a cui si possa pensare.
La fama internazionale di Squid Game, comunque, non sembra essere un fuoco di paglia. Per averne una conferma basta osservare il tam-tam mediatico che ha fatto seguito alla sua pubblicazione, avvenuta il 17 settembre; ogni magazine e giornale, online e su carta, sembra aver dedicato almeno un articolo alla serie. Le tempistiche di consumo e critica si assottigliano sempre di più, tanto che ad un mese e mezzo dalla sua uscita pare impossibile scrivere qualcosa di nuovo su Squid Game. Ci provo, guidato da una questione che fa da trait d’union ad ogni numero di questa newsletter: cosa l’ha resa un mito contemporaneo?
Durante le prime giornate della Cop26 a Glasgow, un gruppo di manifestanti ha inscenato una sorta di gioco del calamaro - reso noto in occidente dalla serie - utilizzando maschere raffiguranti il volto dei più importanti leader mondiali. Questo è il video che fa per te, se vuoi vedere un Boris Johnson traballante che salta su un piede solo. Alcuni attivisti indossavano la divisa rossa usata dai membri dello staff nel gioco, mentre sullo sfondo compariva uno striscione con la scritta “World Leaders: Stop Playing Climate Games” stampata nel carattere usato per il titolo della serie.
Quello di Squid Game è quindi un potente successo iconografico ed estetico. Per dire: come riportato da Iconografie XXI, ad un concorso ministeriale indonesiano la sorveglianza era presieduta da persone vestite con la tuta rossa sopracitata. Fucili giocattolo, ovviamente, perché la realtà non è ancora stata assorbita del tutto da una deriva memetico-autoritaria. Anche la tenuta dei giocatori ha generato enorme interesse, tanto che la vendita delle Vans Slip-On bianche - calzate da tutti i partecipanti alla sfida mortale - è cresciuta a dismisura. La forza suggestiva di questo rapporto tra carnefici e vittime - nella cornice di un racconto estremamente critico nei confronti dello scenario economico d’oggi - ha permesso al pubblico di immedesimarsi così tanto con la storia da desiderare di trasformarsi in cosplayer.
Proprio la critica al sistema di valori capitalistico - per quanto non sia nulla di originale - è la pietra d’angolo del successo di questa narrazione. È rilevante in questo senso immergersi nella prospettiva dello spettatore: la competizione sfrenata - che porta a sacrificare sul tavolo del raggiungimento della stabilità finanziaria porzioni di esistenza sempre più rilevanti; nel gioco, per iperbole, persino la vita - è un’enorme causa di ansia, con il suo meccanismo meritocratico - che sembra stare molto a cuore agli organizzatori della battle royale nell’opera di Hwang Dong-hyuk - che rivela sempre più un volto strutturalmente ingiusto.
La saturazione e il disfacimento dell’ambiente sociale in cui viviamo ci ha portato a rendere sinistramente credibile l’organizzazione di un evento in cui le persone mettono in palio la loro vita in cambio di soldi. “Qualcuno, anzi, guardando Squid Game avrà pensato: Perché non esiste davvero? In fondo nessuno era costretto…” scrive Daniele Manusia in questo articolo su Minima & Moralia. Non il sangue, né il mistero dietro alle maschere che coprono il volto dei potenti; è questo che più spaventa di Squid Game.
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