Musica leggera
Parecchi decenni ci separano da Rino Gaetano, Mina e Nada, ma continuiamo ad ascoltarli parecchio.
Bentornato e bentornata su Retroterra, la newsletter in cui si decostruiscono le tendenze contemporanee - o almeno, ci si prova. Come avevo anticipato nell’outro dell’ultimo numero, sto in fissa con la musica leggera italiana come tante altre persone ben sotto i cinquant’anni. Proviamo a capire perché.
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Il significato dell’espressione “musica leggera” è piuttosto vago. Potrei aprire il sito di Treccani e dirti cosa trovo scritto là sopra - probabilmente ci sarà una definizione che tira in ballo alcune parole chiave tipo “semplicità” e “orecchiabilità” (ho controllato e: previsione sbagliata; ma ci siamo capiti) - ma so che, mentre leggi queste parole, hai ben chiaro in testa cosa intendo quando parlo di quel genere di musica.
Nella storia della canzone italiana c’è un filone che passa attraverso diverse epoche mantenendo un solo elemento costante: la romantica, ambigua e complessa frivolezza. È il suono da boom economico, ammantato di una serenità malinconica che ha conservato una capacità di coinvolgimento sorprendente nel corso del tempo.
La vastità di questa enorme categoria - che oggi, mi ricorda sempre la benvoluta Treccani, è confluita nel pop - mi fa pensare ad un solo insieme nel quale includere Luigi Tenco e Rino Gaetano, Mina e Adriano Celentano. Si tratta di artisti palesemente diversi, ma accomunati in una sezione della rispettiva discografia da queste sonorità accattivanti e riproducibili, con cui trattano tematiche anche profonde e drammatiche affiancando ad esse una straordinaria propensione ad attrarre a sé le attenzioni emotive di chi ascolta, a far vibrare le corde giuste nell’ascoltatore - anche quaranta, cinquanta o sessant’anni dopo.
La musica leggera della seconda metà del secolo scorso è rimasta in vita e oggi viene riscoperta dalle generazioni rappresentate musicalmente da rapper e cantanti che hanno partecipato ad un talent show. È la stessa cultura pop che restituisce le armi, in segno d’onore, alle voci che prima uscivano dai televisori a tubo catodico e oggi vengono ascoltate su Spotify.
La polemica sull’assenza dei brani di Lucio Battisti dalla piattaforma svedese, ad esempio, nasce proprio online; i dati dicono che nel primo mese e mezzo di presenza sull’app - a partire da ottobre 2019 - gli ascoltatori più gasati da questa vecchia new entry siano stati proprio ragazzi e ragazze tra i 18 e i 24 anni. Si può citare anche il caso di La bambina che non voleva cantare, film per la tv realizzato da Rai - e mandato in onda a marzo di quest’anno - sulla storia di Nada, vincitrice di Sanremo nel 1971; 5.5 milioni di telespettatori. Oppure la parabola sanremese di Orietta Berti, sfavorita all’inizio e nona al termine della competizione, con la gloria di essere incoronata quasi unanimemente da internet come “vincitrice morale” del Festival.
Ma comunque basterebbe che guardassi con più attenzione le storie Instagram dei tuoi amici per capire che stiamo ancora in fissa con la musica che ha svezzato i nostri genitori.
Perché quel tipo di sonorità sembra poter sopravvivere allo scorrere delle lancette, mentre gli artefici del pop italiano anni ‘90 e 2000 come Eros Ramazzotti e Laura Pausini - non me ne vogliano - non danno la sensazione di avere quella stessa abilità di affascinare? C’è una specie di energia sincera che si alimenta autonomamente nelle iperboli amorose di Gianni Morandi - quando, nel ritornello di In ginocchio da te, giura di tenere ad una donna “più della sua vita” l’enfasi data alle parole le rende credibili, nella loro esagerazione - o nei versi esistenziali e drammatici di Mia Martini, o nell’eleganza misteriosa, sfuggente e rassegnata di Mina. Ho molti più ricordi legati a Più bella cosa di Ramazzotti - che ascoltavo nelle cassettine in macchina durante i viaggi con la famiglia - piuttosto che ai pezzi di Ornella Vanoni, eppure mi emoziono di più ascoltando questi ultimi che il primo.
Le canzoni uscite in quei decenni portano con sé una carica poetica differente. M’immagino sempre un brano di musica leggera come colonna sonora di un film: in una scena di riflessione nostalgica, Estate di Bruno Martino darebbe un gusto dolce-amaro impagabile e commovente. A volte poi questo genere di scelte sono realizzate concretamente nei prodotti cinematografici; L’incredibile storia dell’Isola delle Rose si conclude con la combinazione di amarezza e vivacità di Sole spento di Caterina Caselli, mentre il protagonista si scontra con il fallimento del suo progetto di creazione di un’isola indipendente nelle acque internazionali fuori dall’Adriatico.
Il contrasto tra l’effervescenza delle sonorità leggere italiane e la sofferenza di cui spesso sono intrisi i testi è uno degli aspetti più interessanti nell’analisi di questa corrente musicale. La musica crea i suoi miti più indimenticabili quando riesce a far convivere melodie che rimangono in testa con parole incisive, brucianti.
Questa pratica da alchimisti era, in qualche modo oscuro, replicabile a quei tempi, come se avesse iniziato a circolare la formula segreta per creare la canzone che sa toccare i tasti giusti. Forse è un’elaborazione che prende forma a distanza, come se implicitamente fossimo portati ad affibbiare qualità superiori a produzioni che non meritano giudizi così entusiasti. Se le cose stessero così però parleremmo di una specie di allucinazione collettiva delle generazioni più giovani; in più, se la musica è anche forza evocativa, non si può negare che il campionario di singoli che mescoliamo in playlist vintage possieda un pathos unico e irriproducibile.
Una scena del cinema italiano tra le più riuscite degli ultimi anni è quella di Lo chiamavano Jeeg Robot in cui lo Zingaro - sotto le note di Ti stringerò di Nada - usa i superpoteri appena ottenuti per abbattere uno ad uno i membri di un gruppo camorrista, per poi eliminare il loro capo, Nunzia, con un abbraccio mortale. Il sadismo spettacolare del personaggio interpretato da Luca Marinelli viene esaltato dal ritmo e dalle parole che scorrono mentre rompe braccia e dà pugni fortissimi, in un’opposizione tra canzone d’amore e azione ferale che rende l’impresa dello Zingaro una specie di deviata performance artistica. Guarda queste immagini e pensa se, private della magia di cui la musica leggera italiana è intrisa, avrebbe fatto lo stesso effetto.
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Questa settimana ho approfittato della zona gialla, quindi i miei consumi sono stati più di bevande che culturali. Ho visto al cinema In the Mood for Love e se ti piacciono i film romantici con una bella fotografia e un’ambientazione insolita per i nostri occhi occidentali eccoti servito. Finito le cartucce.
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