Durante la scorsa estate, uno dei trend più popolari su TikTok prevedeva una complessa spiegazione di una faida hip-hop. Una coppia, formata da un ragazzo e una ragazza, appariva davanti alla telecamera: il ragazzo era molto preso dal racconto di cosa fosse successo tra Kendrick Lamar e Drake, due tra gli artisti rap più famosi al mondo che in quel momento erano nel bel mezzo di un dissing. La ragazza, annoiata, ascoltava la spiegazione precisa e accorata del ragazzo.
Il trend giocava, in senso binario e stereotipato, con le aspettative di genere: ai maschi piace la musica rap e vogliono sentire l’odore del sangue, si caricano nel vedere altri due maschi che lottano tra di loro; alle ragazze tutto ciò non interessa.
Quello tra Kendrick e Drake, però, non è mai stato soltanto uno scontro tra due uomini competitivi, due rapper che vogliono conquistare lo scalpo l’uno dell’altro per affermare la propria superiorità artistica. Spesso i dissing sono questo, un mero esercizio di stile che serve ad allenare la scrittura e a gonfiare l’ego di chi esce vincitore dallo scontro. In questo caso c’è di più.
Per capirlo basta considerare Not Like Us, la canzone che ha messo fine alla disputa e ha definitivamente fatto propendere la bilancia dalla parte del rapper di Compton. Kendrick, nel ritornello, ripete che gli altri “non sono come noi”. Ma chi è questo noi? E chi sono gli altri?
Kendrick Lamar si è sempre distinto per una musica piena di riferimenti sociali, di attenzione alla condizione delle persone razzializzate negli Stati Uniti, di denuncia del sistema carcerario e della brutalità della polizia. Nel suo ultimo album, GNX (2024), ha collaborato con molti artisti di Los Angeles poco conosciuti nella scena mainstream, con l’intento di nobilitare la zona da cui proviene e di dare spazio a nomi distanti dai meccanismi della rodata industria musicale americana.
Il suo album del 2015, To Pimp a Butterfly, è da molti considerato come il miglior progetto hip-hop di sempre. Il disco è pieno di riferimenti al razzismo sistemico che rende impossibile la vita delle persone afroamericane. La copertina è un grido di ribellione, con Kendrick e amici davanti alla Casa Bianca (“from Compton to the Congress”, sottolinea in Hood Politics). Nel disco c’è Alright, una canzone che è diventato un inno del movimento Black Lives Matter e che K-Dot ha cantato sopra un auto della polizia durante un’esibizione ai BET Awards, nel 2016.
La musica di Drake, in sintesi, nasce come un’ibridazione tra una bella voce e l’attitudine rap. L’epidemia di canzoni che mischiano melodie pop a strofe piene di barre è in larga parte responsabilità sua. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, anche se quello che viene definito “pop rap” non fa per me: questione di gusti.
Andando più a fondo, si potrebbe dire che i progetti pubblicati da Drake nell’ultimo decennio sintetizzino gran parte delle tendenze più speculative e prive d’ispirazione che la musica dell’era digitale sta vivendo. Le tracklist dei suoi album sono lunghissime (il picco è stato raggiunto con Scorpion, uscito nel 2018, che contiene 25 tracce assolutamente non necessarie) per nutrire le piattaforme e gonfiare i numeri degli streaming; le accuse di appropriazione culturale sono numerose, Drake ha fatto musica di ogni genere e collaborato con gli artisti più disparati nel tentativo di cavalcare nuovi trend e di estendere la sua audience; la ricerca della viralità sui social e un generale disimpegno dei suoi testi lo rendono un artista per tutti. Non a caso è il secondo più ascoltato di sempre su Spotify, dopo Taylor Swift.
Se Kendrick si è sempre impegnato nel restituire alla sua comunità ciò che ha guadagnato, quantomeno in termini di narrazione, Drake ha agito con spirito imprenditoriale, sacrificando la complessità artistica e i temi scomodi sull’altare di un successo più innocuo possibile. Entrambi vengono definiti artisti rap, ma è evidente che tra i due ci sia una grossa differenza.
Il loro scontro nasce dall’insofferenza di K-Dot nei confronti dei continui tentativi di Drake di affermarsi come il “migliore” nella scena rap americana. Questo genere musicale spesso sa essere molto immaturo. Questo dissing, però, è stato qualcosa di più di un confronto tra due individui. Si è trasformato in una vera e propria contrapposizione tra due modi di vivere l’arte e la cultura: da un lato il mercato e il capitale, la fissazione per i numeri, la genuflessione al Dio algoritmo; dall’altro le istanze dal basso, la marginalità, la libertà di fare musica “difficile”. Per essere chiari: anche Kendrick ha un ricco contratto con una casa discografica. Non c’è nessun San Francesco. Con la sua musica, però, si è assunto delle responsabilità che Drake ha sempre schivato.
Voglio dire, quindi, che è proprio bello vedere uno come Kendrick Lamar ricevere premi su premi ai Grammy Awards per Not Like Us. È bello vederlo esibirsi all’Halftime Show del Super Bowl, davanti a milioni di persone. È bello che un artista che mette in discussione il sistema e ha una consapevolezza politica abbia avuto la meglio e sia sotto i riflettori, a discapito di chi ha usato la cultura hip-hop scordandosi delle sue origini, radicate nel conflitto e nell’avversità al potere; di solito succede l’opposto. Godiamoci il momento.