Tony Effe è stato escluso dal concerto di Capodanno al Circo Massimo. La sua presenza è stata annunciata dal Comune di Roma pochi giorni fa, poi qualcuno ha fatto notare la problematicità dei testi di alcune sue canzoni, soprattutto in termini di misoginia.
Queste pressioni sono arrivate sia da soggetti politici che da realtà come Differenza Donna, un’associazione impegnata nella lotta contro la violenza di genere, che in un comunicato ha scritto: «Se si è davvero contro la violenza maschile sulle donne, contro il patriarcato, contro la misoginia, le iniziative pubbliche non possono offrire visibilità a chi inneggia a violenza, sessismo e odio verso la libertà delle donne».
Le opinioni sui social sembrano convogliarsi attorno ad un sostegno al rapper e alla critica contro la censura imposta dall’amministrazione comunale. Ormai lo sappiamo, le piattaforme non apprezzano che ci si fermi a riflettere qualche secondo in più ma, anzi, ci spingono a prendere posizioni forti e immediate, da condividere il più in fretta possibile. Cerchiamo di rompere questo schema.
Il desiderio di scrivere un pensiero strutturato sul rapporto tra hip-hop e linguaggio d’odio ce l’ho da mesi. In questo caso la scintilla è stato un meme pubblicato dalla pagina Instagram madonnafreeda. Mi sembra che, se ve lo spiegassi a parole, mi e vi farei un torto, quindi andatevi a recuperare il meme cliccando qui.
Osservo questi fatti dalla mia prospettiva, quella di una persona femminista intersezionale e di un ascoltatore di musica rap. Le parole del comunicato di Differenza Donna mi interrogano: è vero che i testi di alcune canzoni di questo genere alimentano gli stereotipi della società patriarcale? È vero, insomma, che ascoltare e difendere Tony Effe - come lui se ne potrebbero citare tanti altri - ti rende una persona complice di un sistema sessista?
Credo si debba essere onesti e non proteggersi dietro a frasi come “il rap ha sempre usato questo linguaggio” oppure “è soltanto musica, mica fa davvero quello che dice nelle canzoni”. Trovo che siano posizioni semplicistiche.
La prima è una formula che si smonta in fretta: davvero siamo così ingenui da credere che un codice artistico complesso come quello dell’hip-hop possa funzionare soltanto tramite la ripetizione di parole, espressioni e atteggiamenti maschilisti? Mi sembra una posizione delirante. Sarebbe come a dire che un libro giallo, per essere tale, deve contenere necessariamente un personaggio che fa l’investigatore, veste con un trench e un berretto e usa una lente d’ingrandimento; oppure che per essere il frontman di una band punk si debba avere una cresta rosa in testa e una dipendenza da droghe pesanti.
Qualche mese fa mi è capitato di ascoltare per la prima volta una canzone che s’intitola Good Good. È una collaborazione dei cantanti R&B Usher e Summer Walker con il rapper 21 Savage, che ha uno stile piuttosto crudo ed è un trapper abbastanza spietato. 21 Savage dedica la sua strofa a una ragazza con cui ha appena chiuso una relazione. Alcune barre suonano così: «Non m’importa con chi sei, voglio vederti felice», «So la persona che sei, per questo voglio che rimaniamo amici», «Non sempre le relazioni durano, ma non trasformiarmolo in un litigio». Cito questo caso perché non si tratta del classico esempio di artista hip-hop che viene ripulito dall’industria musicale per infilarlo in un tormentone pop e renderlo digeribile al pubblico di massa: 21 Savage rimane riconoscibile, stiloso, non perde una virgola in credibilità. Eppure ha detto cose che “non ci aspetteremmo” da uno come lui.
La seconda frase che citavo sopra tocca quello che mi sembra essere un nervo scoperto dell’opinione pubblica. Prendiamo per vero che il rapper misogino non faccia quello che dice nelle canzoni (e ci mancherebbe). Questa posizione però non considera un elemento fondamentale: l’essere umano è estremamente influenzabile. Non butto la palla in tribuna: è chiaro che ascoltare musica rap non significhi essere spinti ad una vita violenta e criminale, così come guardare i film gangster non porta automaticamente ad entrare nella criminalità organizzata.
Però è altrettanto certo che quando si produce cultura si ha un effetto plasmante sulla realtà, soprattutto quella dei più piccoli e di chi non possiede gli strumenti adeguati per capire la differenza tra finzione e vita vera, tra ciò che deve restare nell’ambito artistico e ciò che può far parte della nostra quotidianità.
Iniziamo a chiedere agli artisti che ci piacciono di smettere di dare adito a stereotipi beceri. Iniziamo a pensare che il rap possa e debba esistere senza omofobia, maschilismo, misoginia, abilismo, transfobia.
Perché sì, certe canzoni alimentano i valori della società patriarcale. Questo non significa che debbano essere eliminate, ma che sia necessario averne consapevolezza e parlarne. È troppo facile gridare alla censura senza mettersi in discussione.