Inginocchiarsi
Cosa ci insegna la recente polemica sul gesto anti-razzista riguardo al rapporto tra gesti simbolici e cambiamenti concreti.
Bentornato su Retroterra, la newsletter che non va in ferie (per ora). Oggi parliamo di proteste e simboli.
✊🏻✊🏻✊🏻✊🏻✊🏻✊🏻
Che gesto ti viene in mente quando si parla di proteste in favore dei diritti civili? A me quello di Tommie Smith e John Carlos, il famoso pugno guantato alzato dai due atleti afroamericani sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi messicane del 1968. Ricordo di averne sentito parlare con particolare intensità qualche anno fa durante uno spettacolo teatrale del giornalista e narratore sportivo Federico Buffa, intitolato “Due pugni guantati di nero”.
Buffa articolava un’analisi semiotica di quella che si può descrivere come una indimenticabile performance simbolica. Smith e Carlos - primo e terzo al termine della gara olimpica - si presentano alla premiazione a piedi scalzi e tenendo in mano le scarpe, come forma di sensibilizzazione nei confronti della povertà che colpiva le comunità nere negli Stati Uniti. Indossano ciascuno una spilla dell’Olympic Project for Human Right - un’organizzazione che, tramite boicottaggi e proteste, tentava di migliorare la condizione di vita degli afroamericani - e un guanto nero, che alzeranno al cielo in una coppia di pugni potente. Smith - si nota anche nella nota fotografia - ha un ramoscello d’ulivo in mano, portatore di pace; Carlos tiene la tuta slacciata per mostrare vicinanza alla classe operaia americana.
Esiste una vera e propria iconografia di questa immagine; ogni dettaglio, nel vestiario e nella postura dei due atleti, non viene lasciato al caso. Anche l’atleta australiano fu convinto a indossare la spilla dell’OPHR.
Smith e Carlos avevano le idee chiare sulle cause concrete a cui la loro azione di protesta si riferiva; per raggiungere in modo più efficiente il risultato - far aprire gli occhi al mondo su ciò che i neri dovevano subire in America - elaborarono con grande accortezza la protesta, riempiendo quei minuti teoricamente celebrativi di piccoli elementi che hanno reso quel podio diverso da tutti gli altri.
La strada tracciata dalle manifestazioni di quell’importante anno ci ha portato ad una società internazionale in cui i simboli non hanno più confini nazionali, nascono in un certo contesto socioculturale per poi essere esportati ovunque ci siano sostenitori delle battaglie che dietro essi si celano. L’inginocchiamento contro il razzismo - il gesto portato in auge nel 2016 dal giocatore di football americano Colin Kaepernick - è stato traslato da un paese all’altro, fino ad arrivare anche nel dibattito italiano durante gli Europei di calcio che si stanno disputando in queste settimane.
L’esportazione di queste rappresentazioni culturali è un fenomeno tanto considerevole - fornire un punto di riferimento per lotte simili è apprezzabile - quanto pericoloso; perché nel percorso di traduzione si rischia di perdere un pezzo del significato associato ad un certo segno, con il rischio di riportarlo in modo mozzato e vuoto. È un’operazione delicata, come il doppiaggio di un film o la traduzione di un libro; sarà impossibile riportare l’originale in modo del tutto fedele, ma di certo si può pensare di prelevare un oggetto culturale straniero dandogli una forma dignitosa in uno spazio linguistico e culturale differente.
In relazione alla protesta prima delle partite nessuno si è preoccupato di questo e il tema dell’inginocchiamento nel nostro paese è stato ridotto all’assurda contrapposizione tra favorevoli e contrari alla campagna antirazzista - una di quelle cose che nei corsi di statistica ti dicono di non chiedere mai nei questionari, perché non ne trovi tanti che affermerebbero apertamente di essere favorevoli all’odio etnico.
Piuttosto che chiedere alla federazione, ai giocatori o ai membri dello staff di esporsi su temi come lo ius soli, la lotta al caporalato, il vergognoso abbandono dei migranti che da anni muoiono nel Mediterraneo ci si è abbassati a domandare a tutti di inginocchiarsi perché altrimenti non si fa una “bella scena”. La vittoria della formalità sul tentativo di intervenire concretamente, di un gesto che in Italia può essere solo solidale - dal momento che non è compreso e conosciuto da un’ampia parte della popolazione e non è legato a nessuno spirito riformistico preciso - e che non sposta di un millimetro le condizioni delle persone nere discriminate.
Se un grande atto simbolico del passato come quello di Smith e Carlos portava con sé un terremoto di volontà rivoluzionarie in campo sociale, quello dell’inginocchiamento è stato ripetuto fino a renderlo una routine quasi invisibile, un rito tra i tanti che vengono portati a termine prima del fischio d’inizio di una partita. Tanto che una nazionale multietnica come quella francese ha deciso di non compiere l’azione di contrasto al razzismo prima delle partite - perché, secondo il difensore Rapahel Varane, inginocchiarsi non avrebbe più lo stesso significato che aveva all’inizio. Anche il calciatore ivoriano Wilfried Zaha, che gioca nella Premier League inglese, a febbraio aveva deciso di smettere perché “questa forma di protesta ha perso di importanza” anche perché, sue parole, non notava cambiamenti al riguardo delle battaglie per i diritti delle persone nere.
Negli Stati Uniti il kneeling è una pratica rilevante che viene ancora portata avanti da attivisti e personaggi famosi, un’azione che ha una percepibile connessione con una domanda di cambiamento dai connotati chiari - contrasto alla violenza della polizia contro gli afroamericani, denuncia del suprematismo bianco. I simboli, però, non sono oggetti pronti per l’uso; richiedono un lavoro di significazione, un impegno nel caricarli di un senso che possa agire sulla società e sulla forma mentis delle persone. Altrimenti è solo superficiale imitazione manierista.
✊🏻✊🏻✊🏻✊🏻✊🏻✊🏻
That’s all folks. Se ti è piaciuto questo numero fammi sapere la tua opinione e condividi con un amico o un’amica. Ci sentiamo tra due settimane.