Fallimento
Il valore del fallimento, ai nostri tempi, sembra sempre subordinato alla possibilità di raggiungere un risultato dopo aver fatto un'esperienza negativa.
Ciao, sono Andrea e non ti trovi su una di quelle mail di spam, ma su Retroterra.
Se non lo sai, ho annunciato per l’estate una pubblicazione più diradata: la newsletter arriverà nella tua casella di posta una domenica sì e una no.
Quindi: seguimi su Insta per non perdere queste info e goditi questo numero.
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Solitamente la pubblicità che riempie gli interminabili secondi prima di un video non ha alcuna capacità di impressionarmi, se non con un impercettibile lavoro nelle retrovie del cervello che permette ad un brand di consegne a domicilio di essere indelebilmente associato ad un certo motivetto musicale.
È successo qualcosa di diverso con l’ultimo spot di Nike, parte della campagna nominata Play New. Le riprese si muovono tra un pugile che va al tappeto e una pallina che finisce sulla rete, tra una caduta sulla tavola da surf a un rigore calciato troppo lontano da una porta disegnata su un muro in mattoni.
Si susseguono immagini che mettono in mostra errori, imprecisioni, gesti atletici impacciati. La morale è sorprendente, pensando ai claim pubblicitari che siamo abituati ad associare a brand sportivi che hanno come mantra il costante miglioramento delle performance; “Dare tutto te stesso, anche se sei abbastanza penoso. Perché sai cosa non fa pena? Provare a fare qualcosa che non hai mai fatto. Questo non fa per niente pena”.
Non è certo la prima volta che Nike si espone con produzioni commerciali ad alto impatto sociale, ma questa clip mi è sembrata estremamente originale e attraente per la sua capacità di mettere a tema un argomento solitamente rimosso come quello del fallimento.
Sul palcoscenico mediatico, il fallimento ha spazio solo come anticamera del successo. Raccontare ciò che è andato storto sembra essere una prerogativa di chi è riuscito a riscattare le porte chiuse in faccia ottenendo successi professionali o gratificazioni personali.
Ha circolato parecchio online l’intervista del settimanale Sette a Camilla Boniardi, conosciuta su Instagram come Camihawke ed esordiente nel mondo della scrittura con il romanzo Per tutto il resto dei miei sbagli. Boniardi racconta un passato faticoso, pieno di insoddisfazione ed emarginazione, creando un arco narrativo che dopo una lunga discesa inizia a risalire per giungere ai giorni nostri, in cui la conosciamo nei panni di popolare influencer e i giorni dietro le sue spalle sono ricordi formativi di tempi sfortunati. Se non ci fosse stato un momento di cambiamento profondo, se quelle esperienze fallimentari fossero ancora così incisive nella vita di tutti i giorni non ci sarebbe la stessa possibilità di parlarne.
Affrontare l’incapacità di raggiungere un certo obiettivo richiederebbe una sincerità non scontata, in un mondo mediatico in cui la vulnerabilità è ancora vista da qualcuno come una furberia. È successo con la tennista Naomi Osaka, che durante il Roland Garros di quest’anno ha deciso prima di non partecipare alle conferenze stampa - accettando di pagare le multe legate a questo rifiuto - e infine ha scelto di ritirarsi dal torneo per tutelare il suo equilibrio psichico. Guia Soncini ne ha scritto su Linkiesta, facendo notare l’effettiva posizione di privilegio di Osaka - nel comunicato in cui annunciava di non voler rispondere alle domande prima e dopo i match, Osaka ha parlato in negativo delle richieste dei giornalisti come di “domande che ci spingono a dubitare di noi (tennisti, ndr)”; e si potrebbe ragionare su quanto questa sia una funzione importante del lavoro giornalistico - ma al contempo screditando le sue difficoltà nel sentirsi a suo agio in contesti di esposizione pubblica come semplici “capricci”.
Non sempre il fallimento si trasforma in una storia a lieto fine; nessuna esistenza dovrebbe essere marchiata dallo stigma di un’esperienza non andata a buon fine, ma al contempo la retorica della possibilità di arrivare al riscatto con sacrificio e impegno genera la convinzione che ogni risultato possa essere raggiunto. Basta volerlo.
Anche un ambiente poco impegnato come quello del gossip riporta meccanismi di questo tipo. Prendo un esempio per certi versi sciocco: ricordo un’intervista a Verissimo dell’ex-velina Federica Nargi e dell’ex-calciatore Alessandro Matri - non so perché la mia memoria abbia fatto venire a galla questa storia - in cui la modella ricordava che all’inizio respingeva i numerosi tentativi dell’attuale compagno perché non interessata a stabilirci una relazione. Chi andrebbe in televisione a parlare così apertamente anche di piccoli insuccessi come questi, se non ci fosse la rassicurante certezza di aver già etichettato quei momenti come innocui inciampi in un percorso di riuscita personale?
La disfatta in sé e per sé, con la delusione e lo spaesamento che si porta dietro, resta sempre nell’ombra, come intervallo di tempo tra un’esperienza virtuosa e l’altra. Rimane chiusa nelle pareti di casa, dedicata solo alle persone più intime e talvolta nemmeno a loro, si trasforma in un impedimento interiore da affrontare con gli strumenti di autoanalisi che ognuno di noi possiede nella propria cassetta degli attrezzi emotiva. E sebbene si stiano moltiplicando i profili di persone che postano selfie mentre stanno piangendo, questa dinamica si riversa anche su Instagram e gli altri social che sembrano costantemente popolati da gente che si sta divertendo tantissimo.
Nel film Druk - premiato agli Oscar 2021 come Miglior film internazionale - il protagonista Martin (uno splendido Mads Mikkelsen) ottiene un cambiamento radicale della vita noiosa e annoiata che si era trovato a vivere attraverso un percorso accidentato, che passa (spoiler!) dalla dipendenza alcolica e dalla tragica perdita di uno degli amici più stretti (fine spoiler!). Druk è una grande opera proprio per questa impegnativa sincerità nella rappresentazione di uno smacco: che non è mai un evento distruttivo e definitivo, ma nemmeno una tappa da cui si esce immacolati e sereni come ci viene spesso raccontato. Grazie al fallimento capiamo qualcosa in più su noi stessi, a causa dello stesso possiamo soffrire per momenti più o meno prolungati, sicuramente quando ne usciamo siamo arricchiti da un lavoro interiore che è fondamentale per elaborare ogni avversità. Anche senza una conclusione felice.
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Se non sbaglio a contare - non sbaglio giuro - ci sentiamo tra due settimane, domenica 4 luglio.
Sto pensando, più avanti, di fare un piccolo numero cartaceo in cui raccogliere tutti i numeri usciti finora e aggiungere qualcosa di nuovo. Dimmi se staresti in fissa.
Siamo più di duecento qua sopra, ma che non vogliamo crescere ancora? Fai girare la voce dai.
Ciao!