Classifiche
Non solo quelle di fine anno; le classifiche ci accompagnano tutti i giorni, portandosi dietro alcuni rischi.
Eccomi di nuovo, da quanto tempo. Come avevo promesso qualche settimana fa, parliamo di classifiche.
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È da poco finito un altro anno, e il periodo che ha preceduto i festeggiamenti ha portato con sé le classifiche che celebrano i momenti salienti degli ultimi dodici mesi. Album e film di successo l’hanno fatta da padrone, in un piacevole rituale che stimola ricordi e confronti con idee diverse dalle proprie.Â
Questo tipo di schema interpretativo ha ottime potenzialità ricreative, ma il suo utilizzo sembra non essere più circoscritto ad una divertente messa in ordine del proprio vissuto. La sensazione è che ogni esperienza possa ormai essere inscatolata e schematizzata in una graduatoria, posizionata più o meno in alto in base alla sua rilevanza.
Siamo circondati dalle classifiche, in qualunque direzione. Ci sono quelle per entrare nei corsi di studio - tra Erasmus, master, dottorati, facoltà a numero chiuso - e quelle dei followers, le liste delle città in cui si vive meglio, quelle dei video più visti o delle serie più seguite.Â
La gerarchizzazione di ciò che viviamo è una forma di organizzazione della realtà che può rivelarsi molto utile, favorendo un ragionamento in cui si fa luce su cosa sia più importante. C’è un pericolo dietro l’angolo, però: che la classifica diventi il perno delle decisioni che prendiamo, la lente primaria con cui osserviamo il mondo.
È una necessità dei nostri tempi, quella di organizzare tutto ciò con cui entriamo in contatto in graduatorie che uniscono la rigidità di un elenco di elementi ordinati per importanza alla flessibilità di posizionamenti che possono variare in poco tempo, vista la repentinità con cui nuove analisi soppiantano quelle precedenti.Â
Da cosa deriva? Da un lato c’è la frenesia della competizione costante, dall’altro la continua esposizione ai numeri a cui i social network ci hanno abituato, gettandoci in un’arena digitale dove chi accumula cifre più elevate - di engagement, seguaci, reazioni - ha una voce più significativa degli altri, in ultima istanza: vale, più degli altri.
C’è da dire che in alcuni casi l’utilizzo delle graduatorie pare inevitabile; basti pensare al mondo accademico, con la necessità di giudicare i candidati sulla base di criteri stringenti. Qualcuno potrebbe sottolineare che il problema deriva proprio dall’idea di rendere esclusive determinate esperienze; un discorso diverso, per quanto condivisibile, che meriterebbe una trattazione a parte.
Questo tipo di forma mentis genera un’esaltazione del confronto, non in senso costruttivo ma prevaricatore; chi prende voti più alti è superiore a qualcun’altro, così come chi fa amicizia più facilmente, chi ha un numero più alto di relazioni appaganti, chi ottiene un contratto di lavoro più soddisfacente. Così si plasma una retorica del migliore, in cui quest’ultimo diventa punto di riferimento, modello da seguire per tutti gli altri, unica via per condurre un’esistenza apprezzabile.Â
Il risultato è un’individualità appiattita, una tendenza all’imitazione che soffoca l’unicità di ogni persona sull’altare di un percorso standardizzato, uguale per tutti. Non può funzionare: siamo troppo diversi l’uno dall’altro per poter ambire ad essere tutti come il primo in classifica, fortunatamente.
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