Basta guerre
Pur in tempi contraddittori, la sensibilità occidentale contemporanea è piuttosto compatta nel ripudiare i conflitti armati.
Non avevo nulla di pronto per questa domenica mattina, ma una serie di contenuti letti sull’invasione russa dell’Ucraina - grazie soprattutto alla chiarezza di Il Post, grato di esserne abbonato - mi hanno fatto riflettere su un elemento che, pur all’indomani dell’inizio di un conflitto, mi sembra contraddistingua i tempi in cui viviamo - almeno in Occidente: un netto, e condiviso, antimilitarismo.
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Al termine della Seconda guerra mondiale, l’Occidente fu chiamato ad un balzo in avanti in termini di consapevolezza generale sulle conseguenze di un conflitto armato.
Era stata una “guerra totale”, capace di mettere a repentaglio milioni di vite civili e di distruggere intere città; non più uno scontro massacrante che coinvolgeva soltanto gli eserciti - per quanto anch’essi formati da persone in carne ed ossa - ma una carneficina che metteva chiunque si trovasse nel continente europeo di fronte ad una semplice equazione: “guerra” uguale “morte” e “distruzione totale”, più che “orgoglio nazionale” o “caldo bagno di sangue”.
Il senso comune, quindi, è cambiato in modo irreversibile nel secolo scorso, quantomeno nella parte di mondo in cui viviamo. L’imperituro desiderio di menare le mani di alcuni Stati occidentali si è dovuto necessariamente concretizzare al di fuori dei confini nazionali - e ha comunque comportato conseguenze fortemente negative in termini di popolarità per i governi responsabili degli attacchi armati.
Pensiamo, per esempio, alle enormi proteste popolari negli Stati Uniti e alla drastica diminuzione di credibilità internazionale del paese in relazione al conflitto in Vietnam; oppure al crollo di popolarità subito recentemente dal presidente Biden, causato anche dall’aver cambiato le carte in tavola in Afghanistan. L’attuale amministrazione americana ne è rimasta scottata pur non avendo responsabilità dirette di un’invasione iniziata più di due decenni fa - un dato che permette di capire quanto sia rischioso, al giorno d’oggi, intervenire in scenari di guerra senza subire perdite nel sostegno dei cittadini.
La guerra costa tanto, non solo in termini economici ma soprattutto per quanto riguarda l’appoggio popolare. Un recente sondaggio di Euroskopia riporta che solo il 18% degli italiani sarebbe favorevole ad un intervento armato dell’Unione Europea in difesa del territorio ucraino.
Può sembrare strano parlare di questa sensibilità proprio nei giorni in cui uno dei più importanti leader politici mondiali ha deciso di invadere uno Stato confinante, riportando le lancette indietro a tempi che si pensavano terminati. Questo spirito di repulsione contro i conflitti armati, però, è vivo e si mostra anche in una circostanza così tragica e apparentemente contraddittoria; se ne vedono i segni nelle piazze occupate trasversalmente in tutta Europa da manifestanti che solidarizzano con la popolazione ucraina. Sta succedendo anche in Russia, dove gruppi di coraggiosi hanno preso posizione lì dove il rischio per l’incolumità è più alto.
Questo sentimento è riprodotto dai social network; non solo da chi sfrutta il tema come fosse un trending topic qualunque, da consumare con un paio di banalità per aumentare l’engagement per poi tornare a proporre sconti per le creme viso, ma anche dai profili di uomini e donne che scattano foto e girano video nei luoghi degli scontri, evidenziando minuto per minuto quanto sia orripilante e anacronistico - appartenente ad un’altra epoca - il susseguirsi di razzi sulle città, carri armati che solcano l’asfalto, uomini armati che circolano incontrollati per le strade.
La forza e nettezza del dispiegarsi delle posizioni d’opposizione all’aggressività russa si devono anche a questa connessione tecnologica, che oggi come mai prima d’ora consente di proiettarci nei luoghi del conflitto; di percepire come le immagini di scontri militari in un paese che auspicava di entrare nell’Unione Europea siano ciò che è più distante dallo spirito del tempo in cui viviamo.
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